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Esperienza riportata da una famiglia di Roma.


F. è un bambino di 8 anni e mezzo. Ha la sindrome di Down. Ha una gemella e un fratello di 10 anni. In casa ha un gatto, Tigro, un cane di razza alano, Spartaco, e due tartarughe d’acqua. Oltre ai suoi genitori.

Perché specificare il “suo” mondo? F. vive di comunicazione. Verbale e non. Fin dalla nascita ha capito che nulla gli è dovuto, tutto si deve conquistare: ha una forza di volontà invidiabile, una capacità di osservazione notevole, vuole imparare e fare da solo. Grazie a chi gli sta intorno.
Con gli animali ha imparato a gestire dei rapporti fisici con gli altri, con i fratelli ha imparato a relazionarsi. Noi genitori lo abbiamo aiutato e lo sosteniamo costantemente a curare anche questo aspetto di crescita di sé, ad osservarsi e a valutarsi, non solo rispetto alle sue competenze acquisite, ma anche rispetto alle sue capacità di relazione. Non ci accontentiamo semplicemente di una “buona educazione” formale.
 
F., mostrando dei chiari segnali di isolamento, fu sottoposto a visite otorinolaringoiatriche, che lo portarono a 3 anni a un intervento precoce per un drenaggio trans-timpanico, che gli ha permesso di percepire bene i suoni del mondo parallelamente alla sua crescita intellettiva.
Per sua fortuna F. fu preso in carico, fin da piccolissimo, da una terapista ASL che ha curato sia l’aspetto motorio sia l’aspetto linguistico, in quanto riteneva la persona un unicum…
Lei stessa, conosciuta tutta la famiglia, consigliò l’iscrizione del figlio grande a una scuola di metodo montessoriano, statale, di quartiere, al fine di preparare il contesto per l’entrata di F.
Nel contempo, anche per esigenze familiari, i gemelli furono iscritti a un nido comunale del quartiere di residenza. Nella stessa classe, per mancanza di altre possibilità. La scuola non aveva avuto esperienze concrete con bambini con sindrome di Down, solo approcci teorici di studio. Il personale docente e non docente si formò, pertanto, sul campo, parlando direttamente con noi genitori di lui e della sindrome di Down e permettendo a F. di vivere pienamente l’esperienza della scuola, in tutte le sue manifestazioni, dal gioco alla mensa, dal riposo pomeridiano alle feste organizzate.
Riflettendo sull’esperienza fatta e sul nostro microcosmo familiare, in cui i tre fratelli sono sempre tutti considerati alla pari e nello stesso tempo rispettati per le singole esigenze, noi genitori abbiamo compreso che la condivisione dell’esperienza genitoriale con un bambino come F. nel contesto della classe avrebbe potuto portare tutti nelle condizioni di crescere bene insieme, alla pari, ognuno con le proprie risorse e con i propri limiti.
Ragionando poi, sul fatto che la sindrome di Down è conosciuta più per i pregiudizi che per l’esperienza concreta e diretta, essendo sostanzialmente una condizione genetica rara, ci siamo formati l’opinione di superare la nostra naturale riservatezza caratteriale chiedendo alla scuola materna ed elementare di parlare di F. e della sindrome di Down nelle prime riunioni di classe.
Abbiamo superato numerosi ostacoli, prima di riuscire a realizzare tale passaggio: in particolare alcune docenti sostenevano la tesi che i bambini sono tutti uguali, che ci si conosce direttamente senza particolari approcci culturali preliminari degli adulti che potevano solo creare pregiudizi, difficili da superare al momento della conoscenza diretta.
Altra idea prevalente nel corpo insegnante, suffragata dall’esperienza, era che le famiglie avrebbero utilizzato lo spazio della presentazione come un’occasione per esaltare le capacità dei figli senza evidenziarne i limiti. Ciò avrebbe potuto metterci quindi nelle condizioni di ulteriore emarginazione. Quest’ultimo timore non era stato espresso nei momenti di confronto precedenti la riunione, ma a posteriori, nel corso degli anni, riflettendo sull’esperienza fatta.
La prima reazione negativa era invece legata all’idea, del tutto verosimile, che molti genitori, tendendo a nascondere ciò che non va, per timore di dimostrare di non essere all’altezza e di essere giudicati, non avrebbero evidenziato gli aspetti di crescita che avrebbero potuto costituire gli elementi utili per un piano educativo e didattico della classe. Lasciandoci soli in una presentazione completa di nostro figlio.
Per fortuna, sia nella scuola materna, che poi alle elementari, così non è andata. La serenità della presentazione, la disponibilità all’ascolto di dubbi, perplessità e richieste di chiarimento, la chiarezza di evidenziare limiti e risorse di F., hanno permesso ai genitori e ai docenti di tranquillizzarsi di fronte alla nuova esperienza e di sentirsi coinvolti nel processo educativo di F., rendendo tutti i presenti della classe soggetti di integrazione. Ciò oggi significa che F. invita e si fa invitare a casa dei suoi compagni, dorme abitualmente dove è possibile, sa ambientarsi nei nuovi contesti, anzi a volte viene chiamato per “educare” i suoi compagni, spesso, come lui del resto, disordinati e disobbedienti a casa propria.
Vivendo l’esperienza scolastica nello stesso Circolo didattico, anche se in classi diverse, abbiamo deciso, dopo un’osservazione durata un paio di anni, che era necessario accennare a una presentazione anche nella classe della sorella gemella. Spesso i suoi compagni chiedevano spiegazioni e esprimevano dubbi e giudizi alla sorella, sostanzialmente rendendola responsabile del comportamento di F. A lungo andare ciò sarebbe stato estremamente pesante per lei. Pertanto alla prima riunione dell’anno scolastico odierno abbiamo parlato di F. nella classe della sorella.
Notiamo molte differenze di comportamento dei bambini e delle loro famiglie, anche confrontandoci con la classe del fratello, a cui non abbiamo fatto alcuna formale presentazione e lui ne sta risentendo, anche per altre difficoltà caratteriali, che lo portano a non esprimere apertamente le sue emozioni, se non dopo parecchio tempo dopo i fatti.
Crediamo che la prima integrazione viene dalla famiglia, più si è sereni nell’accettazione della realtà, più si riesce a trasmettere tranquillità al mondo circostante, e ciò permette al prossimo di avvicinarsi in modo sincero, reale, senza pietismi e falsità, trovando quindi quella solidarietà ambientale estremamente importante nel processo di crescita di un bambino.

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